Faceva bene Paganini a non ripetere, chi ti vuole ascoltare lo farà al primo colpo, tutti gli altri addurranno scuse improbabili. Dalla stanchezza alle preoccupazioni, dando per scontato quindi che, chi ascolta, viva in un’isola felice immerso in ricchezza, salute, amore e pizza che non fa ingrassare. Individualisti senza distinzione di genere, innamorati del suono della propria voce, a cui se osi narrare un qualsiasi fatto, ti sentirai rispondere sempre: “non sai che cosa sia successo a me invece”. E di lì a poco lo saprai bene cosa sia loro accaduto, nel dettaglio e diffusamente, mentre quello che tu volevi condividere si è perso, insieme alla voglia di raccontarlo.
Versione più soft è rappresentata da chi la teoria la sa, ma è deficitario dal lato pratico. Ti chiede notizie, ascolta la sintesi di un discorso sicuramente ampliabile, non pone domande e attende impazientemente, come un cucciolo che brama scodinzolante il cibo per intenderci, che voi ricambiate l’interesse con il fatidico quesito: “e tu, che cosa mi racconti?”. Via, rubinetti aperti in un fiume di parole che un ascoltatore ascolterà, magari per l’ultima volta.
Ho sempre pensato che chi parlasse molto lo facesse perché avesse poche persone ad asoltarlo. E se da un lato questo è correlato alla solitudine, alla reticenza e difficoltà di aprirsi, di matrice caratteriale, culturale o linguistica. Dall’altra non si può negare che esista un campione piuttosto nutrito di persone che, se fossero state migliori, più presenti, attente, amiche, ora, non sarebbero state abbandonate.
In tempi piuttosto remoti (333 a.C. – 264 a.C.) il filosofo greco Zenone di Cizio scrisse “la ragione per cui abbiamo due orecchie ed una sola bocca è che dobbiamo ascoltare di più e parlare di meno”.
In tempi piuttosto recenti (oggi) la qui presente blogger torinese Cristina Felice rilancia dicendo: “fate in modo almeno di eguagliare in numero e qualità, le parole pronunciate e quelle ascoltate”.
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